Aligi
Sassu
scultore
Carlo Pirovano
Aligi Sassu
[...]
Una domanda che investe le caratteristiche qualificanti
dell’attività plastica e in contrappunto l’essenza della
poetica di Sassu: perché un assatanato del colore (mi chiedevo
altra volta ) ha sentito il bisogno, a stagioni tornanti, quasi
ciclicamente ricorrenti, di buttarsi nella scultura a provocazione
e a rischio, se non proprio a sprezzo dei presupposti più
naturali della propria ispirazione fantastica e quasi a verifica
critica della configurazione stilistica e formale che questa era
venuta assumendo? In parole povere dietro questo interrogativo si
adombra
una maldestra lettura dell’opera tridimensionale di Sassu,
usandone l’evidenza definitoria (accademicamente intesa) come
correttivo rispetto alla labilità segnica dell’immagine
affidata in toto al colore, come grimaldello critico in confronto
alla libertà dinamica delle sue stesure pittoriche; oppure al
contrario se ne interpretano le invenzioni come puro esercizio
ludico di trascrizione meccanica dei temi investigati dalla
pittura; quando non addirittura esiti ben mirati di un’accorta
operazione di mercato, secondo una prassi disgraziatamente
frequente nelle cronache pseudoartistiche d’oggi, con
protagonisti di gran calibro che affidano qualche ideuzza ad
artigiani della creta o del marmo che
poi daranno corpo a realtà tridimensionali anche
monumentali.
A contraddire anche
una semplice ipotesi del genere e soprattutto a qualificare
da subito la caratteristica gestuale diretta di questa esperienza,
basterà ripercorrerne le tappe nelle vicende personali
dell’uomo, prima ancora di valutare gli approdi figurali.
L’approccio di Sassu alla plastica, prima
che per curiosità sperimentale, avvenne anzitutto per necessità
pratiche di sopravvivenza, in momenti per lui particolarmente
difficili; una prima volta nell’immediato anteguerra dopo
l’esperienza del carcere e dell’isolamento forzato e poi negli
anni immediatamente successivi alla fine del conflitto in un
momento di grave crisi esistenziale causata da concomitanti
contrasti sia privati sia politici; in tutt’e due le occasioni
l’ancora di salvataggio fu passata generosamente da Tullio
d’Albisola, antico compagno delle sperimentazioni futuriste, che
gli offrì l’occasione di lavorare nella sua officina ceramica
di Albisola. Lì comincia da zero l’avventura di Sassu con la
plastica; attraverso il passaggio obbligato della ceramica che
senza dubbio gli si presentava di primo acchito con tutti i
condizionamenti di “arte decorativa” quale era stata
consolidata in negativo da una stanca tradizione meramente
ripetitiva, forse neanche genericamente artigianale, se non nella
maestria tecnica nello sfruttamento delle risorse del fuoco e
delle “sorprese” apparentemente bizzarre dei coloranti
ceramici. Da Sassu, presumibilmente, ci si attendeva appunto
un’adeguata resa ottimale di un’ornamentazione che sfruttasse
al meglio le sue sperimentate doti di colorista; ma ben presto,
superati gli elementari esercizi tecnici, saranno proprio le
potenzialità della materia nella sua dislocazione spaziale e
nell’incidenza dinamica della luce a sollecitare la tensione
creatrice del giovane artista; che dovette rispondere
dialetticamente alle sollecitazioni sperimentali di due sodali
d’eccezione che ebbe la fortuna di trovare ad Albisola, Agenore
Fabbri e Lucio Fontana (come
sottolineano unanimemente gli studiosi che si sono occupati di
questa congiuntura). […]
Aligi Sassu
Contrariamente alle aspettative, Sassu -
almeno per quel che ci par di capire dalle sue testimonianze, ma
ancor più dalle opere sopravvissute - nelle sue sperimentazioni
albisolesi sembra poco intrigato dalle problematiche del colore,
che evidentemente dà per risolte nelle sue arrischiate esperienze
precedenti (basti pensare del resto alle lucide determinazioni
programmatiche degli Uomini
Rossi) quanto piuttosto
dalle sfide primordiali della materia e dalle esigenze di definire
dinamicamente lo spazio; o forse più perspicuamente, gli
interessava andare oltre il valore meramente evocativo e
illustrativo del colore, per conferire alle sue alte risonanze
espressive la pregnanza cogente ed autosufficiente
dell’esistente colore-materia-vita;
mi guarderei bene dall’attribuire
a questa libertà immaginifica nell’uso auto
rappresentativo dei materiali l’etichetta anacronistica
dell’informale, ma è fuor di dubbio che l’esperienza ceramica
forza all’estremo la capacità allusiva della forma nella linea
materia-energia che non era ignota a Sassu fin dalle
adolescenziali,
entusiastiche esperienze futuriste, che la critica, troppo
affezionata all’immagine “figurativa” dell’artista, con
eccesso di zelo, ha generalmente preferito tenere in penombra. Di
fatto insieme al postulato intrigante della tensione
materia-energia, esplicitamente indagato nel tema d’attualità
“realista” rappresentato dal ciclista, si pone anche quello,
ancor più assillante, dell’endiade
vuoto-pieno che da subito si pone come alternanza tutt’altro che
alternativa, per la sostanziale valorizzazione alla pari delle due
componenti, con identica funzionalità espressiva; in altre
parole, i vuoti, le ombre sono realtà scultoria, a tutti gli
effetti, esattamente come le masse plastiche modellate dalla
materia in positivo.
Aligi Sassu
Non avrei dubbi nel riferire tali scelte
alla lontana lezione boccioniana (di Pittura
e Scultura futuriste, Sassu aveva letto avidamente una copia,
recuperata sulle bancarelle) anche se filtrata attraverso la
macerazione della volontà “realista” che del resto
l’artista ripropone con tutta naturalezza nei soggetti
prescelti, ripresi direttamente dal suo collaudato repertorio
pittorico fra la cronaca antideclamatoria e anticonformista di
chiara impronta sociale (Il
ciclista) e la libertà
fantastica di una sostanziale astrazione lirica attraverso
l’immagine del cavallo, che vale sì come simbolo di
immedesimazione nella natura, ma più ancora è pretesto per
saggiare nel mezzo specifico della modellazione una serie di
provocazioni formali: flussi, incavi, ondeggiamenti, grumi di
materia e di luce sono i temi veri di questi esperimenti,
probabilmente oltre gli assunti di programmi concettualmente
definiti. […]
Passa su tutto la bufera della guerra, di un
difficile riaggiustamento di vita, privata e pubblica, fra
contrasti e delusioni. Sassu tenta un’impresa artigianale da
solo con una fornace in quel del Varesotto, decisamente
fallimentare e quando torna ad Albisola da Tullio (1947), riprende
ferri e creta (e idee) esattamente dove aveva lasciato, con la
stessa grinta; con in aggiunta una più matura consapevolezza
critica ed anche una più disinvolta spregiudicatezza
tecnico-operativa, come dimostrano a iosa i cavallini (rosa,
giallo, rampante), ove la sfoglia viene piegata e ritorta a
suggerire non tanto anatomie quanto piuttosto scarti ed impennate,
materializzazione di moto, impossessamento di spazi fluidi; oppure
l’invenzione si arricchisce in costruzioni di più complessi
addensamenti narrativi (Cavalli
innamorati, I tre cavalli di Abderos) che predispongono la composizione a
risonanze plastico volumetriche rimarcate, a forti contrasti
chiaroscurali. L’idea scultoria in senso stretto si impone
oramai senza scarti, senza condizionamenti esornativi e in un
perfetto equilibrio fra espressività della materia ed icasticità
del segno che marca e profila lo spazio e insieme modella i
volumi; non di r
ado
con prodigiose capacità metamorfiche, come documenta egregiamente
il Grande cavallo del ’48 che riprende ancora il tema mitico del
cavallo emergente dai flutti marini; in realtà sbrendolo
schiumante e fugace di un risvolto ondoso, una cresta instabile
che per un attimo mima l’animale che, gorgo d’ombra, si
arrovescia nella luce.
Aligi Sassu
Sono proprio invenzioni come queste che
concretizzano quella felice intuizione del valore strutturale del
negativo (l’ombra, il vuoto) in una riconsiderazione dinamica
delle potenzialità della scultura cui si accennava nel definire
l’autonomia inventiva di Sassu (in questo sì liberissimo
dilettante prestato alla scultura contro tutte le regole
accademiche della sciurezza tettonica della disciplina e i vincoli
tradizionali del mestiere); e suggeriscono anche nelle
esplorazioni formali, i limiti di massima tangenza con la poetica
fontaniana dello spazialismo di cui Sassu non può non aver
percepito le suggestioni: non solo per la fraterna comunanza
operativa (anche Lucio era tornato in Liguria dopo la fuga in
Argentina negli anni di guerra) che doveva lasciare segni concreti
più di ogni partecipata discussione teorica, quanto e ancor più
per l’intricata dialettica segno-immagine-simbolo che veniva
esasperata dal rifiuto, comune a tutt’e due, della scorciatoia
picassiana allora generalmente
ado
ttata
come vessillo di modernità.
Aligi Sassu
Possiamo ragionevolmente immaginare che
proprio fidando sulla gran mole di lavoro macinata ai forni di
Albisola (di cui la produzione con caratteristiche squisitamente
plastiche è solo una minima parte) cioè attraverso questa
immedesimazione nei processi elementi del fare arte,
sperimentandone la materialità artigianale, Sassu abbia
riconsiderato funzioni e caratteristiche del proprio mestiere,
smussandone la forte tensione morale, talvolta populista, o
perfino anacronistica; confermandolo però in una sicurezza
operativa, non priva di spregiudicatezza, che avrebbe assecondato
la sua peculiare curiosità sperimentale, di cui d’ora innanzi
la modellazione, la scultura in cadenze quasi professionali,
sarebbe stata voce significativa; nella sua dedizione, per lo
meno, se non nelle attenzioni della critica e del collezionismo,
inevitabilmente condizionate dall’etichetta egemone della
pittura. […]
Aligi Sassu
I temi del mito, con inserti signficativi
della figura femminile alla fin fine prevalgono
nettamente su richiami della naturalità e sugli agganci
della socialità, anche se alcune memorie ossessive, come quella
del ciclista ritrovano sul metro gigantesco nuova trepida attualità.
Aligi Sassu
Si ha come l’impressione che il procedere
degli anni nel trapasso dalla maturità alla vecchiaia, nonchè
fiaccare la grinta dell’artista ne accentui la vitalità e il
gusto della sfida, senza inibizioni o remore, e mentre può
permettersi di reinventarsi fantasmi figurali da lacerti di natura
(siano zucche o tronchi d’ulivo o pietre antropomorfe) allo
stesso modo mina le cadenze della pittura in rilievi brulicanti di
materia grondante, o ripropone i preziosismi del vetro vestendone
figure lievitanti; gioca con icone celebrate della mitografia
plastica moderna, da Marino a Calder, sforna mandrie indomite di
puledri in guerra con il vento. Ma soprattutto si cimenta
temerariamente, e con indomito vigore, con l’arredo urbano,
inventandosi provocazioni e contrasti; proponendo sviluppi di temi
già sperimentati, quali i motivi mitologici, ma come contaminati
dalla brutalità dell’immaginario moderno; a sfida della
rozzezza della cartellonistica o all’opposto della malia suasiva
del cinema, verrebbe da dire.
Sassu. La scultura, a cura
di Carlo Pirovano con la collaborazione di Carlos Julio Sassu
Suarez- Archivio Aligi Sassu, Il Vicolo, Cesena, 2001. |