Uomini Rossi […]Questa dunque la platea che un Sassu decisamente
primitivista, a partire dal '29, viene abbozzando, nel tentativo di
impostare una terza via di racconto, che fosse al di là, o al di qua,
della violenza protestataria cui la legavano gli espressionisti della
prima ora, o dell'epica monumentale di Sironi e compagni. Ma per chi erano
fatte quelle vie e piazze e strade? Quale protagonista umano avrebbe
dovuto calcarle? Già qualche progettazione in tal senso l'artista
l'andava compiendo, andava cioè elaborando la tipologia dell' "uomo
rosso" cui si lega il periodo qui indagato, che senza dubbio è anche
uno dei più felici in assoluto di Sassu. Come risolvere l'identikit?
Evidentemente, doveva trattarsi di una sagoma umana schiacciata al pari di
una sogliola, in modo da reagire ai gonfiori super-plastici di cui si
erano resi colpevoli Sironi, Funi, Donghi, ciascuno a suo modo, e a
maggior ragione la corte degli scultori, trascinati dall'esempio di Arturo
Martini (però, lui personalmente, niente affatto insensibile a queste
avventure tra le due e le tre dimensioni). D'altra parte, ci voleva pure
un risarcimento, e dunque quanto veniva tolto, a questa figura umana, sul
fronte del rilievo plastico e dei dettagli anatomici, doveva esserle
restituito su quello dell'evidenza cromatica. Da qui la scelta a favore di
una campitura quasi compatta affidata a un rosso squillante, privo di
giustificazioni naturalistiche, affermato come prerogativa assoluta. Lo
abbiamo detto, si tratta di un visitatore sbarcato sulla nostra terra con
provenienza da paesi "altri", lontani nell'ontogenesi e nella
filogenesi, e dunque accreditato di questo segnale di garanzia per quanto
concerne la sua diversità. […] In
effetti, questa condizione antropologica incarnata dagli Uomini rossi pretende
di adempiere a tutte le scadenze della vita reale, ma pur sempre a modo
suo, trasformando cioè le occasioni quotidiane in altrettante avventure
arcane e magiche. Si vive giocando, come se i vari Uomini rossi si
prestassero benevolmente alla condizione di pedine di un gioco di scacchi,
andando ad occupare ciascuno una casella prefissata. Naturalmente, anche
queste caselle devono sottostare alla regola prima di Flatlandia, e quindi
scorrere in giù, scivolare lungo il piano, in luogo di protendersi in
un'orgogliosa simulazione prospettica di profondità.
[…] Gli Uomini
rossi accettano con piacere di essere queste pedine di un gioco
combinatorio, occupano con grazia e dignità le caselle loro assegnate, o
chiamano al loro fianco, con totale divergenza rispetto alle pretese
macchiniste dei futurismi la presenza di cavalli, purchè anch'essi
posseduti dal medesimo codice del rosso dominante, o invece autorizzati a
un'opposizione binaria, così da darsi tinteggiati in un nero corvino. In
questo senso si adempie al rito dell'aggancio con una tappa precisa nella
filogenesi, la pittura vascolare dell'epoca cretese o greco-arcaica, da
cui il mondo degli Uomini rossi sembra davvero sciamare fuori, come
se la produzione vasaria fosse trasferita sul piano, rinunciando a saldare
i bordi nella curvatura del recipiente. Qualche mobile, una sedia, un tavolinetto, deve pur entrare in questo universo così implosivo e semplificato, così come anche nella recitazione più essenziale, affidata ai soli attori, bisogna pur dar loro qualche oggetto di appoggio; ma purchè anche questo si adatti completamente al generale codice riduttivo, si faccia piccolo piccolo, e soprattutto smidollato, privo di strutture di sostegno, fatto della stessa pasta mucillaginosa (oggi diremmo delle stesse resine sintetiche) che entra nella composizione degli abitanti di quest'universo, cioè appunto degli Uomini rossi. E anche il colore segnaletico del rosso può subire qualche variazione, ma senza mai uscire da una banda di oscillazione che lo vede tutt'al più impallidire, talvolta, scendendo a una tonalità di un rosa delicato, come se i padroni di questo mondo stessero esaurendo la carica energetica che li tiene in vita, e fossero sul punto di estinguersi. […] |
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