La denuncia sociale
Marina Pizziolo

A partire dai primi anni cinquanta, sull' onda della violenta polemica che attraversa il fronte artistico, si rinnova l'attenzione di Sassu per i temi sociali. Nel suo caso, però, non si può certo parlare di una programmata adesione alla poetica del movimento realista, del quale non fa parte. La sua scelta, che affonda in quella decisione maturata già nel 1936 quando, rispondendo al referendum indetto da "Domus", aveva manifestato la sua ambizione "di essere chiamato realista", è immune dal sospetto d'ortodossia alle direttive del partito comunista che, è bene ricordare, nel 1948 aveva lanciato il suo anatema, attraverso la denuncia di Togliatti, contro il neocubismo picassiano che infestava le opere di Guttuso, Vedova, Birolli e di altri artisti, autori di quella "raccolta di cose mostruose" che era parsa la Prima mostra nazionale d'arte contemporanea del dopoguerra. "Una concreta realtà non è mai stata per me un'immagine retorica di contenuti", scriverà Sassu, fedele al reale, ma in quanto espressione di un pensiero pittorico. Sassu, che era stato futurista quando aveva creduto nella possibilità di cambiare il mondo cambiando le forme della sua rappresentazione, ha maturato da tempo la convinzione che non si possa "rompere la natura delle forme", pena il silenzio dell'arte.

Le degenerazioni populiste dell'arte sostenuta dal PCI mostreranno d'altra parte, nel giro di qualche anno, l'inconsistenza ideale del realismo, in quanto dogma culturale. Nel 1957 proprio Guttuso, che era stato uno degli alfieri della necessità di un'arte rivoluzionaria, sosterrà l'opportunità di approfondire invece "la riflessione critica sulle questioni artistiche, sulle fonti del realismo moderno", dato che "non poteva e non può parlarsi ragionevolmente di un realismo socialista, dove, come da noi, non esiste una realtà socialista". Per concludere che: "Chi pretende di dividere il mondo in due: arte astratta-arte realista, senza comprendere quanto di realtà ci può essere in un'opera classificata astratta, e quanta astrattezza in un'opera classificata realista, è un settario e non un filosofo". Ma ormai, dopo la crisi degli intellettuali di sinistra provocata dalla vicenda ungherese, l'utopia del realismo socialista era svanita.

Quella di Sassu è dunque una declinazione personale del realismo di ispirazione sociale, che troverà modo di esprimersi in complessi cicli anche negli anni sessanta, in tempi dunque non sospetti di ortodossia politica. Nei Minatori, studio di un frammento del grande affresco che Sassu realizzerà nella foresteria delle miniere di Monteponi, in Sardegna, lo stesso soggetto che nel 1928 era stato espediente di una riflessione formale si presta a una plastica celebrazione della dignità del lavoro. La semplificazione formale ubbidisce all'intento monumentale: la messa in quadro esalta la forza dei minatori, compressi nell'angusta cella che li trasporterà nel buio della terra. Dello stesso anno e di intonazione simile è La mattanza, della Galleria d'Arte Moderna di Genova. La visuale scelta dall'autore esprime la sua presa di posizione, nella drammatica lotta dei pescatori contro quel mare rosso sangue. Poco più tarda è invece una serie di vedute del porto di Savona. Ancora una volta la ripresa del reale non si riduce a passiva trascrizione: per Sassu la pittura non può essere infatti veicolo inerte di un contenuto, ma sempre idea pittorica: "La pittura è poesia prima di essere verità". Ecco che Il molo giallo riesce allora a piegare la severità della rappresentazione alla squillante fioritura del colore. Ma, se il colore è forma poetica della realtà, deve anche essere duttile strumento della temperie psicologica dell'immagine. Per la compatta avanzata degli scioperanti, Sassu ritrova quindi la livida tavolozza che aveva utilizzato per dipingere Spagna 1937. Il rosso per Sassu è il colore della vita: il colore della morte è il colore del freddo.

Ma i temi sociali non sono l'unica fonte a cui attingere: la violenza è sempre pronta a vestire nuove uniformi. Le drammatiche vicende dell' Algeria, in lotta contro la Francia per la propria indipendenza, trovano così un'accorata denuncia in una serie di tele eseguite all'epoca dei fatti, sull'onda emotiva delle notizie che arrivano in Italia. Les femmes d'AIgeri richiama, solo nel titolo, l'omonimo quadro di Delacroix. I parà francesi sono la ferina rappresentazione della violenza che stanno consumando: il colore divora i loro lineamenti fino a distruggere le loro fattezze umane. L' allucinato racconto è condotto con una stesura del colore che ubbidisce alle ragioni emotive dell'immagine. Nell'urgenza dello sdegno non c'è il tempo di sovrapporre al reale la maschera rassicurante di una forma ponderata. È quello che accade anche nell'angosciata visione dell'Inferno. Drammatica evocazione delle forze del male, rese con una scrittura allusiva che forza al limite l'assonanza realistica.

Travolte, invece, dall'esuberanza neoespressionista del colore, ma in un senso gioiosamente vitalistico, sono un ciclo di opere che Sassu ha dedicato a Il popolo dei blues. […]

E ai neri d' America è dedicato anche un altro ciclo ispirato alla celebre poesia Anch'io sono l'America. In questi acrilici, però, il colore non consuma l'immagine, che aggredisce invece lo spazio con l'evidenza del violento contrasto dei colori primari. 

Aligi Sassu Antologica 1927-1999, a cura di  Marina Pizziolo con la collaborazione di Carlos Julio Sassu Suarez, Skira, Milano,1999.